Io sto con le emoticons (da non confondere con le emoji)

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Esistono due tipi di emoticons, una l’evoluzione dell’altra. La sostanziale e netta differenza tra queste è che le prime si creano digitando in serie alcuni segni di punteggiatura al fine di rappresentare qualcosa che ricordi una faccia che ride, strizza l’occhio, spalanchi la bocca: ne escono di-segni strani che ricordano la grafica dei videogiochi anni ’70 e ’80, quelli tutti pixelati. Hanno una storia non proprio recente (USA, 1881) ma solo dopo 100 anni sono state ripescate per rendere meno freddi i testi delle email di fine anni ’70 (sempre in USA). Si differenziano dalle giapponesi kaomoji per il fatto che queste vengono scritte e lette in orizzontale, cioè senza inclinare la testa verso sinistra.
L’altro tipo, quelle più recenti e che dovremmo chiamare emoji, sono invece delle icone colorate ispirate allo stile Manga che si inseriscono in un testo (spesso in maniera sbagliata, ma questo ha a che fare con la grammatica) e non sono altro che la conversione in pittogrammi di quelle più vecchie, la loro evoluzione grafica. Sono state realizzate grazie alle nuove tecnologie ed i nuovi linguaggi grafici e questo ci ha permesso di smettere di inclinare la testa, oltre che cominciare a rendere anche il testo più serio ed importante beceramente frivolo.
Il fatto che io sia un malinconico, uno di quelli che preferisce un sistema audio Bang & Olufsen del 1986 comprato usato su internet ad un super impianto digitale di ultima generazione fa, si che preferisca le prime emoticons a quelle più moderne perché le ritengo fradicie di creatività, inventiva e voglia di sperimentare un linguaggio nuovo e universale. Le seconde invece mi ricordano quegli orribili adesivi fluo anni ’80 (Smack! Wow! T.V.B.) che mia cugina 12enne attaccava qua e là, spesso sulla mia bici o sui miei disegni, staccandoli dalla copertina di Cioè.